CD n.6 DORMIR, SOGNARE. Arie da operette. Atri, 2004.

 

Il programma discografico dell’Archivio Di Jorio prosegue il cammino con una selezione di arie da operette, genere musicale per il quale Antonio Di Jorio fece vibrare forse le corde più belle del suo genio. Diciassette brani, tra valzer, duetti e romanze, sono qui affidati all’interpretazione di due splendide voci abruzzesi, Manuela Formichella e Carlo Assogna e al pianista Roberto Rupo.
Nel primo decennio del secolo scorso, già affermato compositore di canzoni napoletane e con un bagaglio di segreti che l’avanspettacolo e la rivista gli avevano fornito nei periodi di magra, Di Jorio non resistette al fascino dell’operetta e tentò la fortuna. Nel 1911 è ancora a Napoli quando, appena ventenne, vara sulla scena del Teatro Excelsior di Santa Maria Capua Vetere la prima operetta, La pecorella smarrita, seguita dalla Traversata dell’Atlantico al Teatro Rossini di Napoli. Da allora, fino al 1948, fu un moltiplicarsi di successi. È come se Di Jorio in vita sua non avesse fatto altro che scrivere operette: conosceva il genere meglio degli operettisti più navigati. In ogni romanza, duetto o couplet c’era il senso del teatro, il fascino di una melodia straordinariamente raffinata, l’eleganza di un’armonia sicura, coinvolgente. In una parola: il tratto del genio. Il successo, naturalmente, fu immediato: alcune operette di Di Jorio furono rappresentate anche all’estero, più volte trasmesse alla radio e i giornali dell’epoca le segnalavano puntualmente sulla cronaca mondana e degli spettacoli. Non è cosa da poco, se si considera che proprio nei primi anni ’30, con il crescente interesse verso la commedia musicale e il musical, l’operetta si avviava a concludere la  secolare stagione, che, partita dai saloni parigini e dai teatri minori della Vienna imperiale, doveva ora fare i conti con i gusti di un pubblico sempre più esigente e lontano dalle trame frivole dell’operetta all’italiana.
Il famoso compositore d’operette Carlo Lombardo, amico e collaboratore di Di Jorio del quale riadattò il libretto di Oh! Oh! Zozò, in quegli anni tirava avanti le sue quattro compagnie con i pastiches e rifacimenti in cui collegava fra loro musiche di autori stranieri, adattandole ai gusti del pubblico italiano e usandole per libretti da lui stesso creati. È questo il caso di una delle sue più note operette, Madama di Tebe, la cui musica, quasi interamente desunta dall’operetta Flup del polacco Jòsef Zygmunt Szule, si articola su un libretto dello stesso Lombardo, imbevuto di un malizioso sentimentalismo di facile presa.
Nel 1931 così scriveva a Di Jorio ad Atri, denunciando con amarezza il grave stato di crisi in cui versava l’operetta in Italia: “Caro Maestro, il 17 febbraio p.v. termina l’anno comico, ossia il periodo normale di gestione delle compagnie d’operetta, e a tale data tutte le compagnie si sciolgono: Lidelba, Isaplio, Riccioli, Maresca, ecc.  Nel nuovo anno chi vorrà sentire operette dovrà andare all’estero o contentarsi di compagnie raccogliticce, dove cercheranno ricovero i comici affamati. Vi lascio pensare quanto questo stato di cose mi abbatte; pensate che soltanto nell’operetta io ho i miei cespiti d’entrata. Non resta che rassegnarsi e aspettare pazientemente che la tempesta passi e torni un po’ di sereno.”
Pur in un quadro così drammatico per il teatro musicale, Di Jorio vara alle scene un considerevole numero di lavori, avvalendosi della collaborazione di affermati scrittori-poeti-librettisti: Luigi Antonelli (anch’egli abruzzese, critico teatrale al “Giornale d’Italia”, che nella Bottega fantastica affronta la lezione pirandelliana del teatro); l’amico di gioventù Giuseppe Garofalo (oltre a Costa Azzurra del 1931, scriverà per Di Jorio il libretto per l’opera lirica La magalda); e poi Alessandro Billi (Da Livorno a Portoferraio, Le tre stelle, Kus-Kus, Il Kakalì, La cuginetta), Vittorio Lolini (
La Befana di Lisetta, I fastidi della ricchezza) Andrea Niccoli (Il centro di Firenze), l’impresario di operette Pasquale Trengi (L’isola delle donne, Il segreto di un mandorlo) e tanti altri.
Nel secondo dopoguerra, quando ormai l’operetta sembrava irrimediabilmente dimenticata, un tiepido segno di ripresa rincuorò quei compositori che mai avevano smesso di sperare in una seconda primavera. Ma fu sogno breve: da parte del pubblico l’atteggiamento fu più di patetica nostalgia, che di rinnovato e autentico interesse. “Andare all’operetta”, nell’immaginario collettivo, significava tornare con la fantasia agli anni della Belle époque e abbandonarsi per qualche ora al piacere di un mondo fatto di ciprie e ventagli, questa volta davvero lontano dalla dimensione quotidiana della vita.
Fu così che Di Jorio nel ’48 salutò per sempre l’operetta.
Oggi in Italia tiene alta la tradizione il Teatro Verdi di Trieste con il Festival dell’Operetta, che richiama gente da tutta Europa per l’alto livello degli allestimenti. Per il resto, a parte qualche tentativo di inserire le operette nelle grandi stagioni con cast di tutto rispetto e cori e orchestra al completo (l’Opera di Roma, ad esempio, non molti anni fa allestì una memorabile Vedova allegra diretta da Daniel Oren, con Raina Kabaivanska), le poche compagnie d’operette italiane, forse tre o quattro, debbono accontentarsi dei teatri di provincia dove il pubblico, però, stravede ancora per l’operetta e tifa, come nello sport, per questa o quella soubrette, come ai tempi d’oro di Cincilà e del Paese dei campanelli. È il caso del Teatro Marrucino di Chieti, dove la stagione d’operette è attesa anche dai giovani come il Palio a Siena, grazie ad una solida tradizione e ad un sovrintendente sensibile.
L’operetta, allora, può sperare in un futuro possibile? Vogliamo credere che proprio da questi piccoli-grandi centri della cultura italiana l’operetta riprenderà il volo dell’arte, anzi, tornerà “a svolazzare nell’azzurro della gioventù”, come assicurano i versi della celebre romanza dijoriana.

 

Atri, 31 gennaio 2004

 

Concezio Leonzi